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La chiesa, in stile gotico, fu iniziata nel 1275 e finita nel XIV secolo. Alla sua costruzione concorsero i contributi finanziari delle famiglie Ubertini e Tarlati. La facciata asimmetrica, in muratura, comprende anche il campanile a vela dotato di due campane.
L'interno con tetto a capriate ha una sola navata, che prende luce da 12 finestre monofore (6 per lato) la cui distanza reciproca diminuisce via via che ci si avvicina all'abside, conferendo così un maggior senso di profondità all'aula
La decorazione pittorica interna, trecentesca, è a tutt'oggi bene documentata.
È lavoro maturo (1395-1400) di Spinello Aretino l'affresco con i Santi Filippo e Giacomo Minore e storie della loro vita e di Santa Caterina, sulla parete interna della facciata. Del figlio Parri di Spinello è la Crocifissione tra santi, sulla parte destra della parete interna della facciata: a destra del Crocifisso sono raffigurati la Vergine e San Nicola ed alla sinistra i santi Giovanni e Domenico.
La cappella Dragomanni, famiglia nella cui arme figurava un drago, ha struttura gotica con altare in pietra nera scolpito da Giovanni di Francesco da Firenze (1368) e con affresco rappresentante Gesù adolescente che dialoga con i dottori del Tempio, del senese Luca di Tommé.
In una nicchia una terracotta invetriata di Giovanni e Girolamo della Robbia, realizzata fra il 1515 e il 1520 rappresenta San Pietro da Verona.
Nella cappella sinistra il trittico di Giovanni d'Agnolo, sull'altare, rappresenta: al centro l'Arcangelo Michele, alla sua destra (sinistra per chi guarda) San Domenico, ed alla sua sinistra San Paolo.
Nella cappella di destra, ove viene custodita l'Eucaristia, una Madonna col Bambino in pietra, opera anonima di ambito aretino, facente parte una volta della serie di sculture che dal 1339 decoravano le dieci porte delle mura della città, qui ricoverata per sottrarla al degrado provocato dall'esposizione alle intemperie.
Nella chiesa fu sepolto il pittore rinascimentale Niccolò Soggi, citato dal Vasari nelle sue Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori.
Chiesa di San Domenico
Indirizzo: Via di Sassoverde 59, 52010, Arezzo
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Crocifisso di San Domenico ad Arezzo
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Il Crocifisso di San Domenico ad Arezzo (336x267 cm) è una croce sagomata e dipinta a tempera e oro su tavola di Cimabue, databile attorno al 1268-1271 circa e conservata nella chiesa di San Domenico di Arezzo. Prima opera attribuita al maestro, vi si legge un distacco dalla maniera bizantina all'insegna di un maggior espressionismo.
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Cimabue, Crocifisso, (dettaglio), 1268-71, 336 x 267 cm, San Domenico, Arezzo
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'Il corpus pittorico di Cimabue appare molto controverso, in quanto non abbiamo molte opere sicuramente autografe dell’artista. Unica opera certa è solo la figura a mosaico di San Giovanni realizzata nell’abside del Duomo di Pisa. Tra le opere che la critica ha unanimemente attribuito a Cimabue ci sono due grandi Crocefissi su tavola: uno realizzato per la chiesa di San Domenico ad Arezzo, forse tra il 1265 e il 1268, e uno per la chiesa di Santa Croce a Firenze, realizzato intorno al 1272. Lo schema compositivo è quello già utilizzato dai famosi precedenti di Giunta Pisano e Coppo di Marcovaldo, ma in Cimabue la costruzione della figura del Cristo appare decisamente originale. Cimabue rinuncia all’apparato narrativo che, in genere, veniva collocato negli sportelli, nel piede, nei bracci e nella cimasa. Utilizza solo i bracci per inserire le due figure della Madonna e di San Giovanni. La sua attenzione si concentra solo sulla figura del Cristo, al quale cerca di dare un risalto plastico notevole, attraverso un forte chiaroscuro, così da dare l’illusione che il corpo del Cristo non fosse un’immagine piatta dipinta, ma quasi una scultura lignea.
Nel crocefisso di Arezzo la derivazione dallo stile bizantino è ancora evidente, anche nella lumeggiatura dorata con la quale tratta il perizoma che copre il Cristo o i mantelli delle due figure della Madonna e di San Giovanni. Nel Crocefisso di Santa Croce, purtroppo notevolmente danneggiato dall’alluvione che colpì Firenze nel 1966, il corpo del Cristo appare molto più solido e decisamente più naturalistico. Sono scomparsi quei passaggi chiaroscurati troppo netti, e il corpo acquista una morbidezza più delicata e realistica. Da notare che in questa figura anche il perizoma acquista una trasparenza del tutto inedita nella pittura coeva, segno di una maturità nel controllare il colore che è decisamente originale.
Un particolare unifica però i due crocefissi, rivelandosi al contempo come una delle caratteristiche più tipiche dell’arte di Cimabue: l’inarcamento molto accentuato della figura del Cristo. Cimabue sfrutta quasi del tutto lo sportello laterale di destra, portando la figura del Cristo ad essere tangente con il bordo estremo della tavola. L’inarcamento della figura del Cristo era stato sfruttato dai pittori a lui precedenti per dare più drammaticità al momento rappresentato. Cimabue invece inarca il corpo di Cristo anche per dare più risalto volumetrico alla figura.'[1]
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Cimabue, Crucifix (detail), 1268-71, tempera on wood, 336 x 267 cm, San Domenico, Arezzo
Cimabue, Crocifisso, 1268-71, 336 x 267 cm, San Domenico, Arezzo
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Madonna |
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La veste di Cristo,
con le lumeggiature in oro |
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San Giovanni |
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Crocifisso di Santa Croce ad Firenze
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Poco dopo il viaggio a Roma del 1272,eseguì il Crocifisso per la chiesa fiorentina di Santa Croce. Il pregiato dipinto fu distrutto quasi completamente dal famoso alluvione del 1966, quando fu violentemente travolto dalle acque, che rimossero irrimediabilmente gran parte della stesura pittorica. Tuttavia rimangono le riproduzioni fotografiche a testimoniare l'eccezionale valore dell'opera.
Quest'opera si presenta dall'apparenza simile al Crocifisso aretino, ma a un'analisi attenta lo stile pittorico è molto migliorato, tanto da suggerire che sia stato eseguito un decennio dopo, intorno al 1280.
Alto tre metri e 90 è un crocifisso grandioso, con la posa del Cristo ancora maggiormente sinuosa, ma è soprattutto la resa pittorica delicatamente sfumata a rappresentare una rivoluzione, con un naturalismo commovente e privo di quelle dure pennellate grafiche che si riscontrano nel crocifisso aretino. La luce adesso è calcolata e modella con il chiaroscuro un volume realistico: i chiari colori dell'addome, girato verso l'ipotetica fonte di luce, non sono gli stessi del costato e delle spalle, sapientemente rappresentati come illuminati con un angolo di luce diverso. Le ombre, appena accennate su pieghe profonde come quelle dei gomiti, sono più scure nei solchi tra la testa e la spalla, sul fianco, tra le gambe. Un vero esempio di virtuosismo è poi la resa del morbido panneggio, delicatamente trasparente. Dopo secoli di aspri colori pastosi Cimabue fu quindi il primo a stendere morbide sfumature.
Il simbolo delle tragiche conseguenze dell’alluvione è diventato la quasi completa distruzione del gigantesco crocifisso di Cimabue. La croce, dipinta aveva perso gran parte del suo strato pittorico. Come primo provvedimento l’opera d’arte fu trasferita dall’ex refettorio di Santa Croce nella Limonaia del Giardino di Boboli. Nel 1976 il crocifisso fu sottoposto ad un radicale restauro, per quanto fu possibile conservare solamente i resti dello strato pittorico. [2]
Il 4 novembre 2013, proprio per l'anniversario dell'alluvione che inondò Firenze (danneggiando drammaticamente il capolavoro), il Cristo di Cimabue sarà finalmente al sicuro nella Sacrestia di Santa Croce.
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Il Crocifisso di Santa Croce da un’immagine precedente l’alluvione del 1966
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Madonna |
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San Giovanni |
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Cimabue, Crocifisso (dettaglio, dopo l'alluvione del 4 novembre 1966), 1280,
tempera su tavola, 390 cm, basilica di Santa Croce, Firenze |
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