Giotto di Bondone, La Madonna di San Giorgio alla Costa, 1290, tempera su tavola, Museo diocesano, Firenze
   
 

Giotto di Bondone | La Madonna di San Giorgio alla Costa

 
 

La Madonna col Bambino di San Giorgio alla Costa è da alcuni studiosi considerata la più antica tavola dipinta indipendentemente da Giotto. Fu realizzata, probabilmentre intorno al 1290, per la chiesa fiorentina di San Giorgio alla Costa ed è oggi conservata nel Museo diocesano di Santo Stefano al Ponte. Altri la ritengono invece posteriore alla Croce di Santa Maria Novella ed alle Storie di san Francesco di Assisi. Si tratta di una tempera su tavola con fondo oro, di dimensioni cm 180x90.

Storia

 
 
Lorenzo Ghiberti nei Commentari citò una "una tavola et uno crocifixo" di Giotto nella chiesa di San Giorgio, anche se il primo a legare questa tavola al nome di Giotto fu il critico tedesco Robert Oertel nel 1937. Dopo numerose polemiche l'attribuzione è oggi generalmente accettata.

La tavola doveva essere cuspidata, come di norma nel Duecento, e venne segata su tutti i lati, in particolare su quello superiore dove venne sagomata una forma ad arco. Riposta in un deposito nei pressi della chiesa di Santo Stefano al Ponte, venne danneggiata dall'attentato di via dei Georgofili del 27 maggio 1993. Dopo tale grave fatto venne intrapreso un restauro curato da Paola Bracco presso l'Opificio delle Pietre Dure, che pulì la superficie e integrò le lacune, lasciando però visibile con il metodo della selezione cromatica la lesione causata da una scheggia nella veste dell'angelo a sinistra.


Descrizione

La Vergine è rappresentata su un trono marmoreo (in parte perduto a seguito della mutilazione) decorato con motivi cosmateschi (elemento che ricorre anche nei seggi dei Dottori della Chiesa nella Volta dei Dottori di Assisi, a differenza dei tradizionali seggi lignei nella pittura cimabuesca). Due piccoli angeli alle spalle di Maria tengono un drappo di broccato che nasconde in parte il trono e attenua l'effetto tridimensionale. Un elemento originale rispetto alla tradizione bizantina è lo sporgere di due ciocche di capelli dalla cuffia rossa della Madonna.

Le decorazioni incise a stilo sull'orlo delle aureole e ai bordi della cuspide sono particolarmente curate, con segni che sembrano voler imitare i caratteri della scrittura araba (nota all'epoca da tessuti e maioliche importati) e altre forme mistilinee con animali fantastici ("grilli") che sembrano citare esempi transalpini legati al gotico francese (noti tramite i manoscritti miniati, le oreficerie e le vetrate).


Stile

 
Il dipinto contiene i caratteri tipici della produzione giovanile di Giotto, con una solida resa della volumetria dei personaggi le cui attitudini sono più naturali che nella tradizione antecedente; il trono è inserito in una prospettiva centrale, formando quasi una "nicchia" architettonica, che suggerisce un senso della profondità.

La novità del linguaggio di questa tavola si comprende meglio facendo un raffronto con gli esempi fiorentini di Maestà che lo avevano immediatamente preceduto, come Coppo di Marcovaldo e Cimabue.
 
 
 

[1] Giotto di Bondone nacque probabilmente nel 1267, a Colle, frazione di Vespignano, presso Vicchio di Mugello. Di famiglia contadina, si racconta che egli venisse notato dal Cimabue mentre ritraeva il suo gregge sui sassi e preso dal maestro a bottega. Dopo l'inurbamento della famiglia, Giotto dovette, infatti, frequentare la bottega d'un pittore: le sue prime esperienze artistiche, per stile e composizione, avvalorano la tesi dell'identificazione del maestro in Cenni di Pepo, detto Cimabue. Con lui, Giotto poté visitare Roma e Assisi (siamo nel 1288), dove poi avrebbe lavorato a lungo. Ben presto egli iniziò a dipingere per conto proprio. Sono del 1290, infatti, le "Storie di Isacco" affrescate in Assisi. In breve tempo egli divenne a sua volta maestro e il suo stile innovativo iniziò lentamente ad affermarsi, pur trovandosi ancora in minoranza (Corso di Buono, con il suo rigido stile cimabuesco, è a capo della Confraternita dei pittori nel 1295). All'ultimo ventennio del secolo va ascritta la datazione delle sue più antiche opere fiorentine: la "Madonna di San Giorgio alla Costa" e il "Crocifisso" in Santa Maria Novella. Nel 1287, intanto, Giotto si sposò con Ciuta di Lapo del Pela, dalla quale ebbe cinque figli: quattro femmine e un maschio. Negli anni a cavallo tra il Duecento e il Trecento, il maestro si divise tra Roma e Assisi. Qui controllò l'andamento della decorazione della Chiesa Superiore di San Francesco; a Roma, invece, attese al lavoro del ciclo papale nella Basilica di San Giovanni in Laterano e ad altre decorazioni in occasione del Giubileo del 1300, indetto da Papa Bonifacio VIII. È questo il periodo di massimo splendore per Giotto. Maestro affermato con una nutrita bottega, uomo ricco con proprietà terriere (confermate da documenti fiorentini), egli aveva superato per fama il suo mentore Cimabue. Lo stesso Dante scrisse, infatti, "credette Cimabue nella pittura tener lo campo", ma "ora Giotto ha il grido". Tale fu la sua fama che egli venne chiamato nell'Italia settentrionale - fatto eccezionale per l'epoca - per realizzare il suo capolavoro: il ciclo pittorico della Cappella degli Scrovegni di Padova. Nel nord dipinse, inoltre, opere oggi perdute, citate da Riccobaldo Ferrarese. Dal 1311 in poi Giotto tornò a Firenze: la sua presenza in città è testimoniata dai documenti di alcune speculazioni finanziarie svolte da un novero di avvocati (addirittura dieci) per suo conto. Nel 1327 s'iscrisse all'Arte dei Medici e degli Speziali: all'epoca, dovette aver già concluso i dipinti della Cappella Peruzzi e Bardi nella Chiesa francescana di Santa Croce, e il polittico francescano, connesso stilisticamente con questo ciclo pittorico e oggi smembrato in vari musei. L'anno successivo il pittore risulta impegnato in un lavoro a Napoli per Roberto d'Angiò, di cui però nulla è sopravvissuto. Da Napoli si spostò nuovamente a Firenze solo quando fu nominato (12 aprile 1334) capomaestro dell'Opera del Duomo di Firenze. Iniziati subito i lavori per il campanile, non portò mai a termine l'opera: morì, infatti, l'8 gennaio 1337.



Marco Ciati, Cecelia Frosinini, La Madonna di San Giorgio alla Costa di Giotto: Studi e restauro, Edifir, Firenze 1995 ISBN 887970026X

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Museo diocesano di Santo Stefano al Ponte


   
Il Museo diocesano di Santo Stefano al Ponte, inaugurato nel 1995, è collocato nel complesso conventuale degli Agostiniani di Lecceto.
Il Museo, ospitato nei locali della canonica e degli spazi attigui alla chiesa di Santo Stefano al Ponte, è il museo diocesano di Firenze. La collezione è composta da opere provenienti dalle chiese fiorentine, tolte nella seconda metà del XX secolo per ragioni di conservazione e sicurezza.
Ha aperto nel 1983 e subì gravi danni durante l'attentato del 1993, quando crollò un soffitto e vennero perduti per sempre alcuni oggetti e arredi.[*] Riaperto nel 1995, oggi è aperto solo il venerdì pomeriggio.

All’ingresso si trova la cappella del Santissimo Sacramento eretta nel 1586 che mantiene inalterato il suo antico splendore con la tovaglia del Settecento sull’altare, i candelabri in bronzo del Seicento, un calice settecentesco coperto dal velo, la borsa, un leggio, un messale dell’Ottocento.
Contigua alla Cappella del Sacramento è la cosiddetta cappella degli Orafi della compagnia di san Luca con una Croce dipinta trecentesca attribuibile alla cerchia di Taddeo Gaddi. Di qui si passa alla collezione di pitture che conserva una serie di importanti tavole a fondo oro dipinte a scopo devozionale come la Madonna con Bambino di scuola neobizantina, la Crocifissione di Cenni di Francesco, la Madonna dell’Umiltà del Maestro della Madonna Strauss e tre Madonne col Bambino di maestri della fine del Trecento della Valdelsa.
Continuando nella visita si segnalano il dipinto a olio di Santi di Tito del 1602 Incontro del servo di Abramo con Rebecca al pozzo, due dipinti di Giovanni del Biondo e la tavola di Bicci di Lorenzo con Santa Lucia, Santa Maria Maddalena e San Donato vescovo. Raggiunto il corridoio vi si trovano la tavola del Maestro di Santa Verdiana e il trittico smembrato di Lorenzo di Niccolò Gerini.
Dopo la visita agli altri piccoli ambienti che conservano oggetti liturgici, altri dipinti trecenteschi, un presepe in terracotta composto da dieci statuette attribuite a Benedetto Buglioni e alla sua bottega e la statua della Madonna con Bambino di Nino Pisano, si accede alla sacrestia.
La sacrestia, che è la sala più grande del museo, conserva il dipinto più importante del museo: la Madonna di San Giorgio alla Costa di Giotto. Accanto gli altri due dipinti di gran pregio: la Predella di Quarate di Paolo Uccello e il San Giuliano di Masolino da Panicale.
Fra i bronzi da segnalare il busto del Beato Davanzato di Pietro Tacca e fra gli argenti il Reliquario di san Frediano e il Busto di san Cresci su disegno di Giovan Battista Foggini. Altre opere da segnalare la tavola di Domenico di Michelino, l’Annunciazione del Maestro della Madonna Strass, il Polittico di Gàliga sopra un gruppo di Dolenti di San Michele a Casanova e l’ Annunciazione di Bicci di Lorenzo.

Indirizzo Firenze, piazza Santo Stefano al Ponte, 5



[*] La via dei Georgofili a Firenze è un breve vicolo situato dietro al Piazzale degli Uffizi, tristemente famosa perché vi ebbe luogo un attentato con un'autobomba il 27 maggio 1993.
Il 27 maggio 1993 quasi duecento chili di tritolo esplosero da un mezzo parcheggiato in Via dei Georgofili quasi all'angolo con Via Lambertesca. Cinque persone vi furono uccise, tra cui una neonata e una bambina di nove anni, e 48 rimasero ferite. Il bersaglio dell'attentato era la Galleria degli Uffizi e il Corridoio Vasariano che proprio qui si dirama verso il Lungarno, ma questi edifici ebbero danni non gravissimi, con la distruzione di alcune tele, anche se i capolavori più importanti erano protetti da vetri che attutirono l'urto. L'Accademia, che ha sede nella Torre Pulci, già abitata dallo scrittore Luigi Pulci, fu seriamente danneggiata. I libri dell'accademia invece furono miracolosamente recuperati.
La strage venne inquadrata nell'ambito della feroce risposta del clan mafioso dei Corleonesi di Totò Riina all'applicazione dell'articolo 41 bis che prevedeva il carcere duro e l'isolamento per i mafiosi. Analoghi attentati vennero compiuti nella notte tra il 27 e 28 luglio 1993 a Roma (alle chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro) e a Milano in via Palestro; in quest'ultimo attacco persero la vita altre 5 persone (quattro vigili urbani, intervenuti sul posto, e un immigrato marocchino che dormiva su una panchina).

Oggi le tracce dell'attentato in via dei Georgofili sono visibili nei palazzi ricostruiti, dove sono stati lasciati dei segni che identificano della parte riedificata. A ricordo della strage è stato posto un "Olivo della pace", con scritte di pace in molte lingue diverse.

Bibliografia

Alvaro Spagnesi, Sergio Pacciani, Santo Stefano al Ponte Vecchio, Edizioni della Meridiana, Firenze 1999.
Francesco Cesati, La grande guida delle strade di Firenze, Newton Compton Editori, Roma 2003.

 

  Santo Stefano al Ponte
Museo diocesano di Santo Stefano al Ponte

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